Design For 2014, aziende, Ziliani
Marcello Ziliani
Architetto e product designer
www.marcelloziliani.com
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Marcello Ziliani nasce a brescia nel 1963 sotto il segno dei pesci. Nel 1988 si laurea in architettura al politecnico di milano con achille castiglioni come relatore (e maestro ineguagliato). Dopo quattro anni di esperienza all’estero rientra in italia e si dedica prevalentemente al design sviluppando progetti per i settori dell’arredamento, del complemento, dell’illuminazione, del bagno, dell’ufficio, dell’oggettistica e della prima infanzia, occupandosi inoltre di allestimenti, coreografie teatrali, art-direction, design coordination, grafica e comunicazione.
Non ama gli assolutismi e le sicurezze incrollabili, gli piace guardare le cose con occhi sempre diversi per entrarvi in sintonia, preferisce parlare piano e soprattutto ascoltare. Crede che qualsiasi progetto sia, in fondo, un desiderio, una speranza di volo. E che, nonostante le grandi corse che si fanno agitando inutilmente le braccia, prima o poi dieci metri in planata si riescano anche a fare.
Come tutti, chi più chi meno, ha messo da parte la dotazione minima indispensabile di premi e riconoscimenti, ha tenuto conferenze, workshop, fatto parte di giurie, mostre etc. Dal 2011 insegna design di prodotto all’università di San Marino/Iuav.
Ha firmato progetti per allibert, bbb, bertocci, calligaris, casprini, ciacci, ciatti, donati, flex, flos, frascio, geuther, inglesina, infiniti, isa, krios, krover, lanzini, magis, modo e modo, norda, olympia, opinion ciatti, pali, progetti, rapsel, sintesi, techimpex, vanini, views international, visentin, zago.
Intervista
Mi sono accorto, affrontando la stesura di questo testo, che sono passati 25 anni dalla mia laurea (che impressione, era il secolo scorso…), pochi in termini assoluti, un abisso se si pensa che a quel tempo: i computer erano praticamente delle macchine da scrivere un po’ più evolute ma molto più complicate (il macintosh classic è del 1990, tanto per intenderci) e per progettare si usava il tecnigrafo (chi era costui?), non c’era internet (e non ci sarebbe stato ancora per un bel po’), il massimo della condivisione erano i fax (e i telefoni fissi avevano la rotella), non c’erano i cellulari (ad eccezione di quelli sulle automobili dei top manager) e per rimanere in contatto con il mondo utilizzavi una cabina telefonica con telefono a gettoni (forse però all’epoca c’erano già le tessere magnetiche…), non c’erano facoltà di design, le uniche scuole erano ISIA e IED (solo quello di Milano però), i designer erano quasi tutti architetti e al politecnico di Milano insegnavano Castiglioni e Zanuso (ci sono ancora docenti di questa qualità negli sforna-aspiranti-designer attuali?), non c’era la crisi, anzi, sembrava che il mondo dovesse solo migliorare, i muri cadevano e la ricchezza aumentava (e anche il debito pubblico ovviamente). Un’altra era…
Subito dopo la laurea (ho avuto il privilegio di laurearmi con Achille Castiglioni come relatore e lo considero, assieme a mio padre, insuperato maestro) sono partito per la Francia per collaborare all’interno del dipartimento di sviluppo prodotto di una multinazionale, primo trasformatore europeo di materie plastiche dell’epoca, che tra le altre cose produceva anche mobili da giardino e complementi bagno in plastica per la grande distribuzione... non era disegnare per Flos o Cassina ma è stata una scuola incredibile per capire che il mondo del progetto non era confinato ai soliti marchi prestigiosi dell’arredamento italiano ma che esistevano anche realtà di dimensioni enormi nelle quali era possibile fare progetto e cercare di intervenire, seppur “omeopaticamente”, per migliorare la qualità dei prodotti dal punto di vista funzionale, prestazionale, espressivo e produttivo... e si trattava oltretutto di dimensioni produttive e distributive tali da comportare un’ampia ricaduta potenziale sugli usi e sui comportamenti, perlomeno in termini quantitativi, e di conseguenza anche una dose di responsabilità non indifferente.
Durante questa esperienza ho imparato a progettare in team, a non concepire il progetto come il risultato esclusivo del mio “ingegno” ma come esperienza corale, ad interloquire con figure all’epoca poco frequentate nell’ambito del design tradizionale, quali i product manager, gli uomini di marketing, i responsabili test consumatori, gli animatori di brainstorming… ripensandoci oggi mi rendo conto che quell’esperienza conteneva già, sorprendentemente, molti degli elementi che sarebbero diventati più tardi tra gli ingredienti di base del fare progetto contemporaneo.
Sono rimasto in Francia quattro anni (di cui due trascorrendo quindici giorni là e quindici in Italia) e considero quell’esperienza assolutamente fondante per la mia formazione sia in termini professionali che personali. La realtà con cui ci si confronta oggi è ovviamente profondamente cambiata. Se da una parte le istanze di fondo del progetto sono teoricamente rimaste praticamente inalterate dall’altra è altrettanto vero che da allora è cambiato lo scenario, sono cambiati quelli che chiamerei i fondamentali e questo sta avvenendo con accelerazione sempre crescente.
Il livello di complessità è aumentato incredibilmente, la quantità di parametri che il progettista deve tenere sotto controllo è enormemente superiore di quella di un tempo, ed enormemente superiore è ugualmente il livello di informazioni che sono accessibili in tempo reale. Ci troviamo oggi di fronte ad una serie di modificazioni “genetico/culturali” che comportano revisioni profonde se non totali dei parametri di riferimento della disciplina. Mi riferisco alla revisione dei concetti di produzione introdotti dalla makers culture, al cambiamento di mentalità che comporta il concetto di open source trasferito al mondo degli “atomi”, mi riferisco al marketing nell’era del crowdfounding, all’interdisciplinarità praticata nelle esperienze di coworking.
E grazie alla rete non cambiano solo i modi di progettare e costruire le cose ma anche il modo di distribuirle e di condividerle, così come le modalità con cui il progettista può fare ricerca e ricavare i know how necessari al progetto nella condivisione attraverso la rete stessa. È un fenomeno nel quale siamo immersi e di cui i progettisti stessi faticano ancora a percepire la reale portata ma con il quale non possiamo fare a meno di misurarci.
E soprattutto oggi, rispetto al passato, dobbiamo confrontarci con una realtà in cui il progetto non è solo strumento per migliorare le qualità degli oggetti in termini di funzione, prestazione, economia, espressività e linguaggi ma è assurto anche al ruolo di principale responsabile nella partita della sostenibilità, nella quale si gioca il futuro del pianeta. Si è persa in qualche modo l’innocenza, il designer di un tempo era alla ricerca, negli oggetti che progettava, di bellezza e bontà, i giovani progettisti di oggi si trovano invece, volenti o nolenti, a doversi fare carico anche di responsabilità pesanti nei confronti dell’ambiente, soprattutto partendo dal presupposto che di fatto il nostro mestiere consiste nel contribuire all’aumento del parco delle merci, seppur di merci potenzialmente virtuose, e che l’ottanta per cento della sostenibilità di un prodotto si definisce in fase di progetto. È una prospettiva completamente nuova, inedita, impegnativa, che obbliga a dotarsi di strumenti acconci alla serietà del compito e soprattutto ad affrontarlo da prospettive radicalmente mutate. E poi c’è la crisi, economica e sociale, che attanaglia ormai da troppo tempo la nostra parte di mondo. E che probabilmente, al contrario delle altre crisi cicliche del passato, non ci abbandonerà mai completamente, nel senso che appare difficile prevedere, qui da noi, di ritornare ai livelli di ricchezza, di consumo, di crescita dei periodi precedenti. Il concetto stesso di crescita è messo in discussione da più parti in favore di scenari alternativi che contengono elementi di grandissimo interesse per il mondo del progetto e che incredibilmente, se riusciamo a non perdere l’ennesimo treno, contengono prospettive interessanti proprio per il nostro disastrato paese.
In questo senso sono illuminanti i recenti libri “cambiamo tutto!” di Riccardo Luna, “futuro artigiano” di Stefano Miceli e “Contro gli specialisti” di Giuliano da Empoli, oltre alla “bibbia” di Chris Anderson “Makers”. Queste sono di fatto le sfide che ci attendono, speriamo di esserne all’altezza (devo confessare di essere pessimista per natura, ma sarò felicissimo di essere smentito…)
Tornando ai miei esordi, il primo progetto che mi affidarono i “product manager” della multinazionale fu… un’asse del water (quando si dice iniziare con il piede giusto!). Ricordo che i primi modelli che presentai furono giudicati dal comparto commerciale “redhibitoirs”, e lì per lì non capii perché era una parola che non conoscevo… poi mi feci spiegare meglio e il significato era “inaccettabili”. Un successone… e pensare che ne ero tanto fiero. Ma vale la regola d’oro degli americani che dice che ogni insuccesso deve renderci felici perché è un passo in più verso il risultato che cerchiamo.
Alla fine il progetto fu realizzato e funzionò anche bene e conservo ancora una foto in cui sono ritratto con al collo non la corona d’alloro dei vincitori ma… il mio sedile per il water. Ho un ricordo bellissimo di quel periodo, eravamo un gruppo di progettisti tutti appena usciti dalle diverse scuole europee di design (ero l’unico architetto) e ci divertivamo moltissimo.
C’erano francesi, inglesi, olandesi, belgi e italiani (io e Gabriele Pezzini). E già all’epoca le differenze di approccio al progetto si percepivano nettamente, io ero fissato con i maestri e con la cultura, gli inglesi se ne fregavano bellamente e creavano con libertà e coraggio forme azzardate, gli olandesi volevano che tutto funzionasse bene e cercavano soluzioni semplici e inedite per soddisfare i gesti di tutti i giorni, i francesi se la tiravano come sempre, ma nel design Stark non era ancora una star assoluta e il resto era ancora deserto per cui non potevano esagerare. Oggi molte cose sono cambiate, i linguaggi sono diventati molto più trasversali e le appartenenze nazionali contano molto meno, la cultura del progetto si è internazionalizzata e poi, bene o male, tutti i grandi designer sono passati a sciacquare i panni in Italia. Certo persiste ancora una sensibile differenza tra le diverse scuole ed università, sia in termini qualitativi che di impostazione metodologica.
In ogni caso, a tutti i giovani che mi chiedono, un po’ disperati, cosa diamine fare dopo il diploma dico di andarsene, di uscire dai ristretti confini nazionali, di girare l’Europa e il mondo, di fare esperienza altrove. Ti apre la testa e la riempie di cose fondamentali.
Tornando a me, tornato in Italia, ho avuto subito la fortuna di entrare in contatto con la Flos e di realizzare con loro, per il marchio Arteluce, la mia prima collezione di lampade. Piero Gandini, mio coetaneo e all’epoca rampollo in fase di “rodaggio” per la futura guida del gruppo, è stato uno dei personaggi fondamentali nel corso della mia carriera e lo considero a tutti gli effetti una delle persone più intelligenti e brillanti che ho conosciuto. Non a caso ha portato il gruppo Flos ad ottenere risultati incredibili ed è uno dei rari esempi di imprenditore di seconda generazione che ha saputo migliorare il posizionamento e le performance dell’azienda ricevuta in dote, con la difficoltà di ereditare oltretutto una realtà che partiva già da un livello altissimo.
La lampada Sally (1994) parte di quella prima collezione, è sicuramente uno dei progetti cui sono molto affezionato, anche se mi riesce difficile in realtà esprimere delle preferenze: “ogni scarrafone è bello a mamma sua” e ogni progetto è un figlio di cui, secondo me, il designer è, appunto, la madre e l’azienda il padre.
Certo, sotto sotto, ci sono i prediletti, ma non bisogna farlo sapere agli altri…
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