Design e artigianalità: la collezione Faceture
Un prodotto industriale è da sempre, e spesso ampiamente...
Un prodotto industriale è da sempre, e spesso ampiamente criticato per questo, affiancato al concetto di riproduzione in serie, di copia, di standard. C’è chi però a fronte di questo assunto l’ha sovvertito riuscendo in quella che risulta essere un’impresa utopica: personalizzare, e di conseguenza rendere unico un prodotto ottenuto con un processo industriale, o quasi. L’artefice di questa trovata è Phil Cuttance designer neozelandese che ha saputo coniugare due mondi diametralmente opposti realizzando una collezione di vasi, lampade, sgabelli e tavolini in polimero colorato.
La possibilità di sconvolgere i dettami della standardizzazione si ottiene a partire dalla produzione del vaso stesso: il processo, infatti, contempla l’utilizzo della Faceture machine, che facilmente e con pochi step realizza un prodotto qualitativamente ineccepibile se si considera che è frutto di una tecnologia low tech.
La macchina consta di un carrello in legno che ospita da un lato una tramoggia che contiene la polvere di Jesmonite™ e un mixer a manovella per amalgamare la miscela, dall’altro una dima per la colata. Una volta versato il composto lo stampo viene piegato di novanta gradi e ruotato a mano fino a che l’impasto non ha ricoperto perfettamente la superficie interna del modello di plastica.
Questa produzione rende possibile una possibilità di personalizzazione pressoché infinita, di colori e di forme. Le superfici dei vasi sono texturizzate da un motivo di base triangolare che manipolato offre diverse possibilità d’ inclinazione di ogni singola faccia e di conseguenza totale libertà nella configurazione del prodotto finito.
Phil Cuttace ha saputo coniugare abilmente le caratteristiche positive dell’unicità artigianale con la rapidità produttiva della riproduzione in serie, rendendosi vessillo di una cultura del progetto aperta e positiva, metodica e non alienante nei confronti dell’uso della macchina e artistica nel risultato finale.
Testo di Veronica De Pinto